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Articoli, ultime leggi e notizie sui sinistri da circolazione stradale e sul risarcimento danni per le vittime di incidente.

Danno da fermo tecnico: cosa è e quando è risarcibile

4 Dicembre 2020/0 Commenti/in Incidenti stradali /da admin_rf

Quando si subisce un incidente con danni materiali al proprio veicolo si deve ricorrere al carrozziere e, oltre a dover pagare le riparazioni, si è costretti a rinunciare per alcuni giorni al proprio mezzo in panne.

Questo ulteriore pregiudizio viene denominato danno da fermo tecnico e consiste, appunto, nella stima economica che il proprietario dell’autovettura danneggiata dovrebbe affrontare e derivante dall’impossibilità di utilizzare il veicolo per il lasso di tempo necessario alla riparazione.

Il danneggiato quindi ha diritto ad essere risarcito, ma deve dare delle prove adeguate.

La tipologia del danno da fermo tecnico: danno emergente e lucro cessante

Questo aspetto quindi rientra nei danni derivanti dalla sosta forzata del veicolo incidentato, generando spese di notevole entità.

Il danno da fermo tecnico si divide in due aspetti: danno emergente e lucro cessante (a norma di quanto previsto dall’art. 2056 c.c.). Il danno emergente si rinviene ogni qualvolta il proprietario del mezzo dovrà sostenere delle spese, come, ad esempio, i costi di noleggio di altro veicolo.

Per dimostrarle, bisognerà allegare le quietanze relative ai costi sostenuti nel periodo di riparazione della vettura.

Il lucro cessante, invece, deriva dall’impossibilità concreta di utilizzare il mezzo coinvolto nel sinistro da cui ne deriva il mancato guadagno per il proprietario: è il caso, ad esempio, di un professionista che, appiedato, debba rinunciare a degli incarichi di lavoro. In tal caso, occorrerà fornire una prova puntuale della correlazione tra mezzo incidentato e decremento patrimoniale (la riduzione del ricavo) .

La risarcibilità del danno da fermo tecnico

L’aspetto “probatorio” è molto importante perché la recente giurisprudenza ha mutato orientamento circa il fermo tecnico. Le pronunce più risalenti riconoscevano, infatti, la risarcibilità di tale danno quale conseguenza automatica dell’incidente, ritenendo che non fosse necessaria una prova specifica e rigorosa del danno effettivamente subito dal proprietario dell’autoveicolo.

L’esistenza di un danno risarcibile poteva ritenersi sussistente sulla base di una presunzione relativa superabile solo con la dimostrazione concreta che il proprietario, anche se non fosse stato privato della possibilità di usare il mezzo, non l’avrebbe comunque utilizzato.

La motivazione sottesa a tale orientamento si fondava sul fatto che, durante la sosta per la riparazione del veicolo, il proprietario del mezzo continuava a sostenere delle spese e, inoltre, il danneggiato veniva concretamente privato del veicolo per un certo periodo di tempo.

La prova del danno

Dal 2015, però, la Suprema Corte di Cassazione ha mutato l’orientamento originario stabilendo che “il danno da fermo tecnico è risarcibile solo laddove venga fornita prova specifica della perdita economica subita”. E, dunque, il risarcimento per mancato utilizzo del veicolo viene riconosciuto solo allorquando la perdita patrimoniale correlata venga effettivamente provata.

Una posizione confermata nella recente pronuncia della Suprema Corte n. 5447 del 28 febbraio 2020, con cui la Cassazione ha puntualizzato che il danno da fermo tecnico non può considerarsi sussistente in re ipsa, quale conseguenza automatica del sinistro stradale.  Infatti, l’indisponibilità di un autoveicolo durante il tempo necessario alla riparazione è un danno che deve essere obbligatoriamente allegato e dimostrato.

Trattandosi di un “danno conseguenza” ai sensi degli artt. 1223 e 2056 c.c., il danneggiato è tenuto a fornire la prova relativa all’effettivo depauperamento patrimoniale subito quale conseguenza dal mancato utilizzo del mezzo.

Per poter assolvere a siffatto onere probatorio, dunque, la prova del danno non può derivare semplicemente dalla dimostrazione della mera indisponibilità del veicolo, “ma deve sostanziarsi nella dimostrazione o della spesa sostenuta per procacciarsi un mezzo sostitutivo, ovvero della perdita subita per la rinuncia forzata ai proventi ricavabili dall’uso del mezzo”.

E può non bastare neanche questo, perché viene richiesta anche l’effettiva necessità del mezzo sostitutivo.

La necessità del mezzo sostitutivo

La Cassazione, con l’ancor più recente sentenza n. 24173/20, depositata il 30 ottobre 2020, ha rigettato il ricorso di un’impresa di autoriparazione che, quale cessionaria del credito di un proprio cliente, aveva lamentato, tra le altre cose, il mancato riconoscimento da parte della assicurazione delle spese di noleggio di vettura sostitutiva sostenute in seguito al sinistro. 

Ebbene, la Cassazione sul punto ha concordato con i giudici d’appello, i quali avevano ritenuto che il credito non fosse stato adeguatamente provato come inerente a una conseguenza del sinistro: a giudizio della Corte territoriale, confermato in sede di legittimità, la cessionaria, cioè la carrozzeria, avrebbe dovuto dimostrare la necessità oggettiva concreta del cedente, il suo cliente, di utilizzare un veicolo sostitutivo, non essendo sufficiente la dimostrazione dell’importo rappresentato nella fattura emessa.

La cessione del credito

La vicenda è utile per ricordare anche che il credito di risarcimento del danno da cosiddetto fermo tecnico è suscettibile di cessione, ai sensi dell’artt. 1260 ss. cod. civ. (l’automobilista danneggiato, cioè, può cederlo all’autoriparatore), e il cessionario può, in base a tale titolo, domandarne anche giudizialmente il pagamento al debitore ceduto, non sussistendo alcun divieto normativo in ordine alla cedibilità del credito risarcitorio. (vedi Cass. n. 51 del 10/01/2012)

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Finire fuoristrada per mancanza del guardrail: c’è risarcimento?

24 Novembre 2020/0 Commenti/in Incidenti stradali /da admin_rf

Se la fuoriuscita autonoma con il proprio veicolo è concausata dalle cattive condizioni del manto stradale o se il danno risulta molto più grave di quanto sarebbe potuto essere in presenza di idonei dispositivi di trattenuta, si ha tutto il diritto di chiedere un risarcimento all’ente gestore della strada, anche se si è corresponsabili dell’accaduto.

Con una recente e significativa sentenza,  la n. 26527/20 depositata il 20 novembre 2020, la Corte di Cassazione è tornata sulla questione della responsabilità “stradale” della pubblica amministrazione, dando ragione ai familiari di una vittima della strada su un tragico ed emblematico caso.

 

Automobilista precipita in un burrone da una strada senza guardrail e perde la vita

L’uomo era precipitato in un dirupo con la sua auto dopo essere uscito di strada in un tratto di viabilità comunale del comune di San Lucido, nel Cosentino, privo di barriere di protezione in corrispondenza di una curva a 90 gradi e purtroppo nella rovinosa caduta aveva perso la vita.

I suoi familiari avevano citato in causa l’Amministrazione comunale chiedendo il risarcimento per la perdita del proprio caro, ma il Tribunale di Paola aveva rigettato la domanda non ritenendo provato che la strada in questione appartenesse al Comune e, di conseguenza, l’obbligo di custodia.

I congiunti del deceduto avevano quindi appellato la decisione presso la Corte d’Appello di Catanzaro, che aveva sì ritenuto che la strada fosse comunale, e che quindi il Comune di San Lucido avesse l’obbligo di mantenerla in condizioni di sicurezza ed efficienza, ma aveva concluso che, anche laddove fosse stata dimostrata la pericolosità della sede stradale, non sarebbe comunque stato provato che queste condizioni di rischio fossero l’effettiva causa della fuoriuscita dell’auto, addebitata invece dai giudici all’esclusiva responsabilità del conducente, “reo”, tra le altre cose, di aver tenuto una velocità eccessiva e non adeguata allo stato dei luoghi: “appare, piuttosto, del tutto plausibile ritenere che il sinistro stradale sia dipeso da una sua disattenzione o da un’errata manovra o da elevata velocità, più che a causa della mancanza di barriere di protezione, con conseguente esclusione della responsabilità del Comune, ai sensi dell’art. 1227 c.c.” avevano sentenziato i giudici di secondo grado.

La custodia del gestore si estende anche agli elementi accessori o pertinenze

Di qui il ricorso anche per Cassazione degli eredi della vittima, tornati a lamentare il fatto che la Corte territoriale non avesse minimamente valutato che la corretta apposizione dei guardrail, in base ai criteri e alle caratteristiche previste dalle leggi in materia, su un tratto di strada caratterizzato da oggettiva pericolosità, avrebbe con ogni probabilità evitato la tragedia, indipendentemente dalle cause dello sbandamento.

I ricorrenti avevano inoltre eccepito che la custodia esercitata dal gestore di una strada non è limitata alla carreggiata, ma si estende anche alle pertinenze, comprese le eventuali barriere laterali di sicurezza, con la conseguente responsabilità per danni determinati dall’assenza o all’inadeguatezza di tali elementi di protezione.

Osservazioni ritenute fondate dalla Suprema Corte, la quale ricorda alcuni principi a tutela degli utenti della strada.  Primo, come sostenuto dai ricorrenti, “in materia di responsabilità ex art. 2051 cod. civ. (cioè danno causato da cose in custodia, ndr), la custodia esercitata dal proprietario o gestore della strada non è limitata alla sola carreggiata, ma si estende anche agli elementi accessori o pertinenze, comprese eventuali barriere laterali con funzione di contenimento e protezione della sede stradale”.

Pertanto, nel caso in cui si lamenti un danno derivante dalla loro assenza (o inadeguatezza), “la circostanza che alla causazione dello stesso abbia contribuito la condotta colposa dell’utente della strada non è idonea ad integrare il caso fortuito, occorrendo accertare giudizialmente la resistenza che la presenza di un’adeguata barriera avrebbe potuto opporre all’urto da parte del mezzo”.

Per escludere la responsabilità del gestore, la condotta del danneggiato dev’essere eccezionale

In altre parole, a fronte della dedotta responsabilità ex art. 2051 c.c. dell’ente gestore della strada, la Corte territoriale non avrebbe potuto escludere il nesso di causalità fra la condizione della strada (e delle sue pertinenze) e la caduta del mezzo nel precipizio semplicemente sulla base di una condotta colposa della vittima, ma avrebbe dovuto accertare che quest’ultima fosse così eccezionale e imprevedibile da determinare l’interruzione del rapporto causale fra la situazione della cosa e il sinistro.

Se così non è, la responsabilità dell’Ente va riconosciuta. Questo non significa che la colpa della vittima non possa rivestire rilevanza ai fini risarcitori, ma ciò – conclude la Corte – “deve avvenire sotto il diverso profilo dell’accertamento del concorso colposo del danneggiato, valutabile, ai sensi dell’art. 1227 c.c., nel senso di una possibile riduzione del risarcimento, secondo la gravità della colpa del danneggiato e le conseguenze che ne sono derivate”.

Dunque, i danneggiati vanno risarciti, per quanto in misura inferiore a seconda della corresponsabilità riconosciuta. La sentenza è stata quindi cassata, con rinvio alla Corte d’Appello di Catanzaro che dovrà procedere a un nuovo esame della causa.

 

 

 

Contestazione dell’assicurazione sul preventivo di riparazione

15 Ottobre 2020/0 Commenti/in Incidenti stradali /da admin_rf

La compagnia di assicurazione contesta il preventivo di riparazione del veicolo senza motivarne le ragioni, ma solo “in automatico”, con “frasi fatte”, per non pagare o per rimandare alle calende greche  il risarcimento?

Il danneggiato ha tutta la possibilità, e anzi il dovere, di far valere i propri diritti perché, in assenza di specificità della contestazione, il costo in questione è da ritenersi “non contestato”.

Un preventivo ritenuto incongruo in modo generico è da ritenersi “non contestato”

Vale la pena di sottolineare la sentenza del Tribunale di Latina n. 1721/20, pronunciatosi quale giudice d’appello sul contenzioso insorto in seguito a un sinistro stradale in relazione al quale il verbale degli agenti, la deposizione di un testimone escusso in primo grado, nonché le fotografie dell’auto incidentata di proprietà dell’originario titolare del credito risarcitorio per i danni materiali, poi ceduto alla carrozzeria, consentivano di poter affermare quanto meno una concorrente responsabilità del conducente del dell’altro veicolo coinvolto, un autocarro, nella causazione dell’incidente.

Quest’ultimo, in particolare, giunto nei pressi di un incrocio regolato da lanterna semaforica al momento funzionante con luce gialla intermittente, aveva omesso di dare la precedenza al veicolo proveniente dalla sua destra, centrandolo e facendolo finire contro il semaforo.

Per converso, non vi era però la prova che il proprietario della vettura avesse conformato la propria condotta di guida alla massima prudenza come prescritto dall’art. 145 CDS, tenuto anche conto che al momento dei fatti il fondo stradale era bagnato e stava piovendo.

Dunque, alla fine i giudici avevano applicato quanto previsto dall’art. 2054 secondo comma c.c., in punto di presunzione di corresponsabilità in pari misura nella causazione del sinistro.

Ma l’aspetto che qui preme è l’appello della carrozzeria a cui il danneggiato aveva poi ceduto, come previsto, il proprio credito risarcitorio.  Con riferimento alla quantificazione del danno, infatti, il carrozziere aveva prodotto un preventivo (atto di provenienza unilaterale ex latere creditoris) che la compagnia assicurativa aveva contestato, ma lo aveva fatto in modo del tutto generico, con le solite “frasi fatte” di “mero stile”, non specificando in alcun modo, nonostante l’analiticità e il dettaglio del documento, le ragioni per le quali fosse ritenuto eccessivo, né facendo alcun riferimento per quali delle riparazioni elencate fosse stato indicato un prezzo non congruo.

Ebbene, i giudici hanno “bacchettato” e dato torto all’assicurazione, chiarendo che, in assenza di specificità della contestazione, il preventivo in questione deve ritenersi non contestato ai sensi dell’ art. 112 cpc. Per la cronaca, peraltro, il tribunale lo aveva ritenuto comunque corretto previo confronto delle riparazioni indicate e del relativo costo con l’entità dei danni emergenti dalle foto allegate relative alla macchina oggetto del sinistro. La compagnia, pertanto, è stata condannata a corrispondere all’officina per l’intero le spese documentate per la riparazione della vettura.

Nello scontro frontale responsabile chi invade la corsia opposta

16 Settembre 2020/0 Commenti/in Incidenti stradali /da Emanuele Musollini

Se accade uno scontro frontale, la responsabilità va ascritta (in via esclusiva o maggioritaria) a chi invade la corsia opposta, anche se l’altro veicolo coinvolto procedeva ad una velocità superiore ai limiti.

A chiarire il concetto la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 19115/20 depositata il il settembre 2020, con la quale la Suprema Corte ha definitivamente deliberato su un tragico incidente a causa del quale avevano perso la vita due persone. Gli Ermellini hanno dovuto stabilire quale dei due comportamenti avesse concorso, in misura maggiore, a determinare la morte dei conducenti: se quello di colui che aveva superato la linea di mezzeria invadendo quindi la corsia opposta o quello di chi invece era rimasto regolarmente nella propria corsia ma procedeva in eccesso di velocità.

 

La responsabilità nei sinistri

Com’è noto, negli incidenti stradali si parte sempre, per così dire, da un pari concorso di colpa. L’articolo 2054 del codice civile stabilisce infatti che “nel caso di scontro tra veicoli si presume, fino a prova contraria, che ciascuno dei conducenti abbia concorso ugualmente a produrre il danno subito dai singoli veicoli”.

Nei fatti, però, le situazioni in larga misura si definiscono, laddove uno dei due automobilisti riesce a fornire la prova dell’altrui violazione del codice della strada e di aver fatto tutto il possibile per impedire l’incidente, nel qual caso la responsabilità viene addebitata solo all’altro conducente: per ottenere il risarcimento al cento per cento, infatti, è bene ricordarlo, l’automobilista deve dimostrare di aver anche tenuto un comportamento prudente e, ciò nonostante, di essere stato nell’impossibilità di prevedere ed evitare lo scontro. Non basta, cioè, che uno dei due conducenti abbia torto se l’altro poteva, con una normale diligenza e prudenza, impedire il danno. Chi si mette alla guida di un veicolo deve infatti poter prevedere anche le altrui violazioni del codice della strada e porsi nella condizione di impedire l’incidente.

Il caso dei “frontali”

Nel caso di impatto frontale tra due auto, determinato dall’invasione dell’opposta corsia di marcia, la responsabilità è logicamente e sicuramente del conducente che supera la linea di mezzeria. Su questo non ci sono dubbi per la Suprema Corte.

Resta però da chiarire se si possa ravvisare un concorso di colpa laddove l’altro automobilista, che pure viaggiava regolarmente nella sua corsia, procedeva a velocità troppo sostenuta. La Suprema Corte spiega che tutto dipende da quanto determinante sia stato l’eccesso di velocità ai fini dell’incidente.

Colpa esclusiva di chi invade la corsia opposta se l’altrui violazione è ininfluente

Il concorso di colpa va escluso se si dimostra che la velocità sostenuta non ha avuto alcun rilievo ai fini del sinistro, ossia che lo scontro si sarebbe comunque verificato, anche tenendo un’andatura moderata. Ciò succede, ad esempio, quando l’invasione della carreggiata avviene all’ultimo istante, ossia così repentinamente da non consentire di frenare. Perciò è irrilevante, in questo caso, che il conducente danneggiato stesse procedendo oltre i limiti prescritti. In tal caso la colpa è tutta di chi invade la corsia, anche se l’altra auto sta correndo.

Vi è invece concorso di colpa quando una andatura più moderata avrebbe consentito di vedere in anticipo l’altra auto invadere la propria corsia, evitando così l’impatto. In tal caso, ciascun conducente avrà un grado di colpa che sarà quantificato dal giudice in proporzione alla gravità del proprio comportamento (sovente il 50% a testa, anche se nulla esclude l’applicazione di diverse percentuali come, ad esempio, il 70% e il 30%).

Il caso in esame

Nel caso chi specie, la Corte ha ritenuto che la responsabilità per l’incidente stradale dovesse essere addebitabile esclusivamente in capo al conducente che aveva superato la linea continua a metà strada: l’altra macchina si era infatti trovata all’ultimo l’ostacolo davanti non potendo far altro che frenare

In conclusione, il concorso di colpa in presenza di due violazioni del codice della strada, è tutt’altro che automatico. Bisogna infatti prima valutare se la condotta di chi ha infranto la legge ha avuto “incidenza causale” sul sinistro, ossia ha concorso a determinarlo. Se eliminando l’infrazione (nel nostro caso l’eccesso di velocità) lo scontro non si sarebbe potuto comunque evitare, la responsabilità è da addebitare per intero all’altro conducente.

La Cassazione fa chiarezza sulla targa di prova

27 Agosto 2020/0 Commenti/in Incidenti stradali /da Nicola De Rossi

Può sembrare una questione marginale, ma così non è? Tutti, o quanto meno tanti utenti dalla strada hanno circolato almeno una volta su un mezzo con la “targa di prova”, per esigenze dimostrative, o di collaudo, eccetera. Ma come ci si regola in queste circostanze e, soprattutto, chi risarcisce in caso di incidenti? Della tematica si è occupata la Corte di Cassazione con la sentenza n. 17665/20 depositata il 25 agosto 2020, che stabilisce alcuni punti fermi al riguardo. Innanzitutto, un veicolo già targato, anche se circola per esigenze di prova, non può esibire la targa di prova, che va applicata solo su mezzi privi di carta di circolazione.

Infatti, se la targa di prova presuppone l’autorizzazione ministeriale, e se quest’ultima può essere concessa solamente per veicoli privi di carta di circolazione, ne consegue che la collocazione della targa di prova su mezzi già targati risulta una prassi che non trova riscontro nella disciplina di settore.

Ulteriormente – ed era il motivo del contendere -, ne discende che, dei danni derivanti dalla circolazione di un mezzo di trasporto già targato, che pur circoli con targa di prova, risponde l’assicuratore del veicolo e non l’assicuratore della targa di prova.

Una donna trasportata su un mezzo con targa di prova chiede i danni per un tragico sinistro

La vicenda è tragica e riguarda un incidente mortale. Una donna aveva citato in giudizio davanti al giudice di Pace di Vicenza  il proprietario della vettura su cui viaggiava, una concessionaria e le compagnie di assicurazione Cattolica e Allianz per essere risarcita dei danni patiti in seguito a un sinistro occorso nel marzo del 2003: alla giuda del veicolo, assicurato con Cattolica, si trovava un addetto all’autofficina della concessionaria che doveva verificare un problema meccanico segnalatogli dal proprietario, a sua volta trasportato, ma il conducente aveva perso il controllo del mezzo e, a seguito dell’impatto, era deceduto, mentre i due passeggeri avevano riportato gravi ferite. Il meccanico, prima di mettersi alla guida, aveva prelevato e posto sulla parte posteriore della macchina la “targa prova” di proprietà dell’autosalone e assicurata per la responsabilità civile con Allianz, di qui la citazione in causa di entrambe le compagnie, ciascuna delle quali asseriva che dei danni doveva rispondere l’altra.

Condannata a risarcire in primo e secondo grado l’assicurazione della targa di prova

Il giudice di pace aveva giudicato responsabili e tenuti al risarcimento la concessionaria in quanto proprietaria della targa di prova e Allianz quale assicuratore della targa, rigettando le domande proposte nei confronti di Cattolica, che garantiva il veicolo, e del suo proprietario per difetto di legittimazione passiva. Allianz aveva appellato la sentenza sostenendo che la “targa prova” non era stata rinvenuta nell’immediatezza del sinistro, ma in un secondo momento e ai margini di una scarpata, con conseguente esclusiva responsabilità dell’assicuratore dell’auto. Il Tribunale di Vicenza quale giudice di seconde cure, con sentenza del maggio 2018, aveva accolto l’appello solo (molto) parzialmente, per quanto riguarda il calcolo degli interessi dovuti, ma, nella sostanza, aveva confermato la condanna di Allianz a tenere indenne la concessionaria.

Il ricorso per Cassazione di Allianz

La compagnia ha quindi proposto ricorso per Cassazione, che le ha dato ragione delineando con l’occasione anche il quadro normativo di riferimento, quello giurisprudenziale, le prassi applicative e le indicazioni ministeriali sul tema specifico oggetto del ricorso.

Ai sensi del primo comma dell’art. 127 del Codice delle Assicurazioni il certificato di assicurazione che le imprese devono rilasciare deve indicare: denominazione e sede dell’assicuratore; nome o denominazione e il domicilio o la sede del contraente; il tipo del veicolo; i dati della targa o, se non prescritta, i dati di identificazione del telaio e del motore; il periodo di assicurazione; il numero del contratto di assicurazione. Il contenuto del certificato di assicurazione è previsto dall’art. 9 del D.P.R. 24 novembre 1970 n. 973, il cui secondo comma stabilisce che il certificato relativo ai veicoli che circolino a scopo di prova tecnica o di dimostrazione per la vendita, a norma dell’art. 63 del d.P.R. 15 giugno 1959 n. 393 (oggi DPR 474/01), deve contenere, in sostituzione dei dati indicati nella lettera d) del precedente comma, i dati della targa di prova.

Nella vigenza della L. n. 990/1969 la giurisprudenza della Cassazione aveva già affermato che, “in base al combinato disposto dell’art. 1 I. 24 dicembre 1969 n. 990 (il quale stabilisce, con una norma di carattere generale e senza eccezioni, l’obbligo dell’assicurazione per la responsabilità civile per i veicoli a motore senza guida di rotaie in circolazione su strade di uso pubblico (o su aree a queste equiparate) e dell’art. 9 del regolamento di esecuzione alla legge stessa approvato con d.P.R. 24 novembre 1970 n. 973 (il quale stabilisce che i veicoli che circolano a scopo di prova tecnica o di dimostrazione per la vendita debbono contenere, in sostituzione dei dati indicati nella lettera d, i dati della targa prova), anche i veicoli circolanti in prova sono soggetti all’obbligo assicurativo, che è adempiuto mediante la stipulazione di una polizza sulla targa prova, la quale assicura qualsiasi veicolo in circolazione con quella targa (trasferibile, ai sensi dell’art. 66, comma 5, cod. strada, da veicolo a veicolo)“.

Anche i veicoli che circolano in prova vanno assicurati

L’art. 1 L. n. 990/1969 è stato, poi, abrogato dal d. Igs. n. 209/2005, ma il suo contenuto è stato recepito dall’art. 122 Cod. Ass.; l’art. 9 del d.P.R. n. 973/1970 è tuttora in vigore. 11. L’art. 2 del citato DPR prevede che il veicolo – ove ne sussistano i presupposti – può circolare su strada a condizione che esponga posteriormente la targa di prova. Il Regolamento non disciplina l’obbligo di copertura assicurativa del veicolo che circoli con targa di prova, ma si deve dare continuità all’orientamento precedente riguardo alla necessità che il veicolo sia assicurato per la responsabilità civile, in considerazione del fatto che è immutato il dato normativo alla luce del quale la Cassazione aveva affermato che anche i veicoli circolanti in prova debbono essere assicurati per la responsabilità civile. E l’assicuratore sarà obbligato a risarcire i danni subiti dai terzi anche qualora “l’incidente da cui sia derivato il danno si sia verificato ad opera di veicolo circolante con targa di prova ma per uno scopo diverso da quello della prova tecnica (o della dimostrazione per la vendita), poiché tale irregolarità rileva soltanto nei rapporti tra assicuratore ed assicurato, non incidendo sull’esistenza del rapporto assicurativo, né costituendo una eccezione opponibile al terzo danneggiato che agisca direttamente nei confronti dell’assicuratore, salva la rivalsa di questo verso l’assicurato a norma dell’art. 18, comma 2, della legge n. 990 del 1969”.

I mezzi che possono circolare in prova e i soggetti autorizzati

La circolazione con targa di prova è attualmente disciplinata dal Decreto del Presidente della Repubblica 24 novembre 2001, n. 474, recante “Regolamento di semplificazione del procedimento di autorizzazione alla circolazione di prova dei veicoli” e dall’art. 98 del Codice della Strada (parzialmente abrogato dall’art. 4 del DPR 24.11.2001, n. 474). L’art. 254 del Regolamento di attuazione del Codice della Strada (che disciplinava peraltro la circolazione con targa di prova) è stato abrogato dal D.P.R. 24 novembre 2001, n. 474. 15. Quest’ultimo decreto prevede che possano circolare su strada, senza carta di circolazione, i soli veicoli che vengano autorizzati dal Ministero delle infrastrutture e trasporti, per esigenze connesse con prove tecniche, sperimentali o costruttive, dimostrazioni o trasferimenti, anche per ragioni di vendita o di allestimento.

Le categorie di soggetti che possono essere autorizzati sono quattro: i costruttori di veicoli a motore e di rimorchi, i loro rappresentanti, i concessionari, commissionari e agenti di vendita, i commercianti autorizzati di tali veicoli, ivi comprese le aziende che esercitano attività di trasferimento su strada di veicoli non ancora immatricolati da o verso aree di stoccaggio e per tragitti non superiori a 100 chilometri, nonché gli istituti universitari e gli enti pubblici e privati di ricerca che conducono sperimentazioni su veicoli; i costruttori di carrozzerie e di pneumatici; i costruttori di sistemi o dispositivi di equipaggiamento di veicoli a motore e di rimorchi, qualora l’applicazione di tali sistemi o dispositivi costituisca motivo di aggiornamento della carta di circolazione (ai sensi dell’articolo 236 del regolamento di attuazione del Codice della Strada, DPR 16 dicembre 1992, n. 495), i loro rappresentanti, concessionari, commissionari e agenti di vendita, i commercianti autorizzati di veicoli allestiti con tali sistemi o dispositivi di equipaggiamento; gli esercenti di officine di riparazione e di trasformazione, anche per proprio conto.

L’autorizzazione alla circolazione di prova va accompagnata dalla polizza assicurativa

L’autorizzazione alla circolazione di prova, in base al comma IV dell’art. 1 del DRP del 2001, viene rilasciata per un solo anno, è utilizzabile per la circolazione di un unico veicolo per volta, e va tenuta a bordo. Sul veicolo è presente il titolare dell’autorizzazione, oppure un suo dipendente munito di apposita delega, ovvero un soggetto in rapporto di collaborazione funzionale con il titolare dell’autorizzazione. Il veicolo, munito dell’autorizzazione, espone posteriormente una targa che è trasferibile da veicolo a veicolo.

Il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, per il tramite degli Uffici Provinciali della Motorizzazione, regolamenta la messa su strada dei veicoli con l’obbligo dell’effettiva realizzazione delle finalità previste dalla legge, che sono quelle concernenti: prove tecniche, prove costruttive, prove sperimentali, trasferimenti, dimostrazioni, allestimenti, pubblicità. Sulla vettura impegnata nella circolazione temporanea, possono essere trasportati eventuali lavoratori dipendenti, impegnati in operazioni di prova, qualora l’autorizzazione sia stata richiesta per scopi tecnici. Se l’autorizzazione concerne la messa in strada di un’auto nuova, sono ammessi a bordo anche gli eventuali acquirenti.

L’autorizzazione deve essere accompagnata da una polizza assicurativa RCA. Entrambi i documenti (l’autorizzazione alla targa prova e il contratto di assicurazione) non devono essere scaduti, perché la circolazione di un veicolo con targa prova scaduta rende priva di effetti anche la copertura per la responsabilità civile sulla stessa targa prova, sia pure ancora vigente. L’articolo 9 del DPR 24 novembre 1970, n. 973 (Regolamento di esecuzione della legge 24 dicembre 1969, n. 990, sull’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti) prevede, infatti, che il certificato di assicurazione relativo ai veicoli che circolano a scopo di dimostrazione per la vendita, deve contenere, in sostituzione dei dati della targa di riconoscimento, quelli della targa prova. Pertanto, il certificato di assicurazione afferente ai veicoli che circolano per dimostrazione finalizzata alla vendita, è strettamente correlato alla targa di prova, e ne riporta i dati.

Fatta quest’utile premessa, la Suprema Corte arriva alla questione centrale del ricorso, vale a dire la possibilità di utilizzare una targa prova anche su veicoli già immatricolati, secondo una prassi comune impiegata da concessionarie d’auto o meccanici, per esigenze di prova tecnica o legate alla vendita.

La targa prova è una deroga alla previa immatricolazione, non serve ai mezzi immatricolati

E qui, dopo una lunga disquisizione su una materia ancora in discussione anche livello governativo, la Cassazione conclude per il “no”. “La targa prova – spiegano gli Ermellini – rappresenta, in definitiva, una deroga alla previa immatricolazione e alla documentazione propedeutica alla “messa in circolazione”, ma se l’auto è già in regola con i due presupposti (Carta di circolazione e immatricolazione), la deroga non è funzionale allo scopo.

La Suprema corte chiarisce anche che il fatto che fra i soggetti abilitati dal legislatore a ricevere un’autorizzazione provvisoria vi siano anche gli esercenti di officine di riparazione e di trasformazione, si spiega con la circostanza che “tali soggetti potrebbero avere l’esigenza di svolgere una delle suddette attività, su un veicolo non munito di carta di circolazione e, in tal caso, potrebbero impiegare l’autorizzazione provvisoria richiesta e far circolare – eccezionalmente – tale veicolo con la targa prova oppure, come nella esemplificazione contenuta nella nota ministeriale del 30 marzo 2018, nel caso di veicolo commerciale nuovo, il cui allestimento venga modificato prima dell’immatricolazione, per cui, per l’officina si presenti la necessità di testare su strada il veicolo, durante i lavori di trasformazione”.

Pertanto, desumere dall’inserimento di tale categoria la conclusione che l’autorizzazione provvisoria è necessaria per permettere ai riparatori di circolare con un veicolo che, di per sé stesso, può liberamente circolare, essendo già munito della carta di cui all’art. 93 cod. strada, appare in contrasto con la finalità della targa prova. L’apposizione di quest’ultima per la circolazione di un veicolo munito di carta di circolazione realizza insomma “un risultato inutile per duplicazione di polizze per cui si dovrebbe escludere l’operatività della ordinaria assicurazione per la responsabilità civile.

Inoltre, la tesi contrastata nel ricorso potrebbe costituire un profilo meritevole solo ipotizzando che l’utilizzo di un veicolo già immatricolato, ma con targa prova, presenti un contenuto di pericolosità rispetto alla circolazione ordinaria, tale da rendere del tutto sproporzionato l’elemento del rischio assicurato. In sostanza, si dovrebbe sostenere che l‘assicuratore per la responsabilità civile obbligatoria ordinaria non avrebbe garantito quel veicolo se avesse conosciuto l’utilizzo dello stesso anche per “prove tecniche, sperimentali o costruttive, dimostrazioni o trasferimenti, anche per ragioni di vendita o di allestimento“. Questo problema però non si pone, per quest’assicuratore obbligatorio, nel momento in cui si afferma il più lineare principio per cui la targa prova e la relativa specifica assicurazione (diversa dalla r.c.) non operano nel caso di veicolo cui sia stata rilasciata la carta di circolazione, a seguito di regolare immatricolazione”.

Il mezzo già immatricolato che circola in prova usufruisce della normale polizza assicurativa

Questo veicolo, pertanto, godrà della normale polizza assicurativa della quale è titolare il suo proprietario. Polizza che opera, normalmente, quale che sia il conducente del veicolo assicurato e le cui eventuali limitazioni soggettive, che dovessero essere previste nel contratto di assicurazione (ad esempio, per soggetti inferiori ad una certa età o con una anzianità di abilitazione alla guida ridotta) non potrebbero mai escludere il diritto del terzo danneggiato all’indennizzo. Senza contare che, notoriamente, fra i soggetti comunque autorizzati dall’assicuratore a condurre il veicolo, anche nel caso di limitazioni contrattuali, vi sono proprio i riparatori.

La disciplina normativa consente, quindi, alla Cassazione di concludere che “la circolazione dei veicoli sprovvisti della carta di circolazione, cioè senza targa, è comunque consentita, quando sia necessaria per prove tecniche, sperimentali o costruttive o per dimostrazioni finalizzate alla vendita. In queste ipotesi, in luogo della carta di circolazione, il veicolo necessita, per circolare, di una specifica autorizzazione ministeriale, che può essere attribuita unicamente a determinate categorie (titolari di officine, concessionari, costruttori eccetera) e che consente il rilascio della “targa prova”. La finalità della norma è quella di permettere anche all’esercente l’officina di riparazione di eseguire prove su strada al fine di verificare l’efficacia degli interventi da lui effettuati. 50.

Dei danni dell’auto già immatricolata che circola in prova risponde l’assicurazione “naturale”

Resta da sciogliere il nodo, nell’ambito di operatività della targa prova, relativo alla operatività della garanzia assicurativa. Come di è già detto, anche i veicoli circolanti con targa prova sono ovviamente soggetti all’obbligo di assicurazione, atteso che l’articolo 122 Codice delle assicurazioni non prevede alcuna eccezione. L’assicurazione della responsabilità civile per la circolazione con targa prova è stipulata non dal proprietario del veicolo ma dal titolare dell’autorizzazione a circolare con la suddetta targa. In questo caso la polizza copre il rischio dei danni, con la particolarità che non si riferiscono a quelli causati da un determinato veicolo, ma seguono la targa e, cioè, coprono i danni che potrebbero essere determinati da tutti veicoli sui quali è apposta, di volta in volta, la targa prova: questo perché la garanzia riguarda tale documento e non il veicolo.

Ma nell’ipotesi, relativa al caso specifico, in cui un veicolo munito di carta di circolazione, regolarmente targato e quindi coperto dalla ordinaria assicurazione della responsabilità civile, venga posto in circolazione con l’apposizione di una targa prova, sovrapposta a quella ordinaria, troverà applicazione la garanzia del veicolo. “Questo perché – conclude la Cassazione – la finalità della targa prova non è quella di sostituire l’assicurazione del veicolo, con quella del titolare dell’officina, ma quella – differente – di consentire la circolazione provvisoria e di attribuire una copertura assicurativa anche ai veicoli non muniti di carta di circolazione e, perciò, non assicurati per la responsabilità civile, che si trovino comunque a circolare per le esigenze connesse con le prove tecniche.

Il ricorso di Allianz è stato pertanto accolto e la sentenza cassata con rinvio, “atteso che, il veicolo già targato, anche se circola per esigenze di prova, a scopo dimostrativo o per collaudo, non può esibire la targa di prova, la quale deve essere applicata unicamente su veicoli privi di carta di circolazione. Difatti, se la targa di prova presuppone l’autorizzazione ministeriale, e se quest’ultima può essere concessa solo per i veicoli privi di carta di circolazione, ne consegue che l’apposizione della targa di prova sui veicoli già targati è una prassi che non trova riscontro nella disciplina di settore. Di talché dei danni derivanti dalla circolazione del veicolo già targato, che circoli con targa prova, deve rispondere – ove ne ricorrono i presupposti – solo l’assicuratore del veicolo e non l’assicuratore della targa di prova”.

Non spetta al danneggiato provare l’anomalia della strada

15 Giugno 2020/0 Commenti/in Incidenti stradali /da Emanuele Musollini

Se si rimane vittima di un incidente a causa delle condizioni precarie di strade o marciapiedi si ha tutto il diritto di chiedere il risarcimento all’Ente gestore e, soprattutto, si è tenuti a dimostrare soltanto che il sinistro è da ricollegarsi all’anomalia della “cosa in custodia”: spetta al “custode” fornire la prova “liberatoria”, dimostrando cioè di avere adottato tutte le misure idonee a prevenire e a impedire che il bene demaniale a lui affidato fosse fonte di pericolo, e che l’evento lesivo è da attribuirsi a “caso fortuito”, o invocando il concorso di colpa del danneggiato.

Con l’ordinanza n. 11096/20 depositata il 10 giugno 2020 la Cassazione ha ricordato con forza questo fondamentale principio relativo all’onere della prova a tutela degli utenti della strada, che troppo spesso le Pubbliche Amministrazioni e gli stessi tribunali territoriali non rispettano.

Incidente provocato da buca stradale

La vicenda. Un minore, mentre percorre in sella al suo motorino la Provinciale 247, nel Perugino, rovina sull’asfalto a causa di una “voragine” sul manto stradale riportando lesioni serie: fatto avvenuto nel 2009. I genitori citano in causa la Provincia di Perugia, Ente gestore della strada, e il giudice di Pace del capoluogo umbro accoglie la loro domanda di risarcimento, ma il Tribunale cittadino, nel 2017, accogliendo il gravame interposto dall’Amministrazione provinciale, riforma totalmente la decisione.

Il danneggiato, nel frattempo divenuto maggiorenne, e il padre propongono quindi ricorso per Cassazione, contestando innanzitutto il fatto che, pur essendo incontestato che il danno fosse derivato dalla cosa, il giudice dell’appello avesse rigettato la domanda affermando che la cosa in custodia non presentava “intrinseche connotazioni di concreta pericolosità”, senza indicare neppure una delle diverse ipotetiche altre cause a cui aveva ritenuto che si dovesse addebitare il sinistro.

Ma soprattutto, i ricorrenti hanno lamentato il fatto che i giudici di merito avessero alterata la ripartizione dell’onere della prova e non avessero considerato né le dichiarazioni di un testimone, che aveva assistito all’incidente, né di un dipendente della Provincia. Il quale aveva dichiarato che, dopo il sinistro, l’asfalto era stato ripristinato, riconoscendo quindi indirettamente la pericolosità della “cosa in custodia” all’Ente.

Per la Cassazione i motivi di doglianza sono fondati. Custodi – ricorda la Suprema Corte – sono tutti i soggetti – pubblici o privati – che hanno il possesso o la detenzione della cosa. E certamente lo sono i proprietari, e in quanto tali gravati da obblighi di manutenzione e controllo della cosa custodita.

Gli obblighi degli Enti gestori delle strade

La Suprema corte rammenta anche che, in forza all’art. 14 del Codice del Strada, gli enti proprietari delle strade (e autostrade) sono tenuti a provvedere: alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi; al controllo tecnico dell’efficienza delle strade e relative pertinenze; all’apposizione e manutenzione della segnaletica prescritta. A loro carico, così come dei relativi concessionari, è dunque senz’altro configurabile la responsabilità per cosa in custodia disciplinata dall’art. 2051 del codice civile, “in ragione del particolare rapporto con la cosa che ai medesimi deriva dalla disponibilità e dai poteri di effettivo controllo sulla medesima.

Sulla base di un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, prosegue la Cassazione, in caso di sinistro dei danni conseguenti all’omessa o insufficiente relativa manutenzione, il proprietario o il custode (che può essere il possessore, il detentore e il concessionario) risponde ex art. 2051 c.c., salvo che dalla responsabilità presunta a suo carico si liberi dando la prova del fortuito.

L’onere della prova

Ed è qui che i giudici ribadiscono chi deve fare cosa in questi casi. Il danneggiato che domanda il risarcimento del pregiudizio sofferto in conseguenza dell’omessa o insufficiente manutenzione della cosa in custodia, o di sue pertinenze, invocando la responsabilità del custode, è tenuto, secondo le regole generali in tema di responsabilità civile, a dare la prova che i danni subiti derivano dalla cosa, in relazione alle circostanze del caso concreto. Tale prova consiste nella dimostrazione del verificarsi dell’evento dannoso e della sua derivazione dalla cosa in custodia, e può essere data anche con presunzioni, “poiché la prova del danno è di per sé indice della sussistenza di un risultato “anomalo”, e cioè dell’obiettiva deviazione dal modello di condotta improntato ad adeguata diligenza che normalmente evita il danno”.

La Cassazione chiarisce che l’art. 2051 c. c. integra un’ipotesi di responsabilità “aggravata”, perché caratterizzata da un criterio di inversione dell’onere della prova, imponendo al custode, presunto responsabile, di dare eventualmente la prova liberatoria del caso fortuito.

Il custode è cioè tenuto, in ragione dei poteri che la particolare relazione con la cosa gli attribuisce, cui fanno riscontro corrispondenti obblighi di vigilanza, controllo e diligenza (in base ai quali è tenuto ad adottare tutte le misure idonee a prevenire ed impedire la produzione di danni a terzi, con lo sforzo adeguato alla natura e alla funzione della cosa e alle circostanze del caso concreto), nonché in ossequio al principio della cosiddetta vicinanza alla prova, a dimostrare che il danno si è verificato in modo non prevedibile né superabile con lo sforzo diligente adeguato alle concrete circostanze del caso. Deve cioè dimostrare di avere espletato, con la diligenza adeguata alla natura e alla funzione della cosa in considerazione delle circostanze del caso concreto, tutte le attività di controllo, vigilanza e manutenzione su di esso gravanti in base a specifiche disposizioni normative (nel caso, l’art. 14 CdS), e del principio generale del neminem laedere.

Questa inversione dell’onere probatorio incide sulla posizione sostanziale delle parti, agevolando la posizione del danneggiato e aggravando quella del “danneggiante”, sul quale grava anche il rischio del fatto ignoto. Poiché che il custode presunto responsabile può, in presenza di condotta che valga ad integrare la fattispecie ex art. 1227, 1° co., c.c., dedurre e provare il concorso di colpa del danneggiato, senz’altro configurabile anche nei casi di responsabilità presunta ex art. 2051 c.c. del custode, ai diversi fini della prova liberatoria da fornirsi dal custode per sottrarsi a detta responsabilità, è pertanto necessario distinguere tra le situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada e quelle provocate da una repentina e imprevedibile alterazione dello stato della cosa.

Quando si configura il caso fortuito

Solamente in quest’ultima ipotesi, sottolineano i giudici, si può configurare il caso fortuito, in particolare quando l’evento dannoso si sia verificato prima che l’ente proprietario o gestore abbia potuto rimuovere, nonostante l’attività di controllo espletata con la dovuta diligenza al fine di ovviarvi tempestivamente, la straordinaria ed imprevedibile situazione di pericolo determinatasi.

Insomma, non spetta al danneggiato dare la prova dell’insidia o del trabocchetto, e in particolare dell’anomalia della strada, ma viceversa incombe sul proprietario di strade pubbliche l’onere di dare la cosiddetta prova liberatoria, dimostrando cioè di avere adottato tutte le misure idonee a prevenire ed impedire che il bene demaniale presenti per l’utente una situazione di pericolo occulto produttiva di danno a terzi, con lo sforzo diligente adeguato alla natura della cosa e alle circostanze del caso concreto, al fine di fare in sostanza valere la propria mancanza di colpa e, se del caso, invocare il concorso di colpa del danneggiato.

Venendo al caso specifico, il giudice dell’appello aveva invece affermato, testuali parole, che, “pur dovendo ritenersi provato l’evento (ossia che il ragazzo fosse caduto dal proprio ciclomotore e si fosse ferito ad un ginocchio), ciò che non risulta invece provato, e che era onere dell’attore provare, è la sussistenza di una anomalia della sede stradale astrattamente idonea a determinare, di per sé, una situazione di pericolo per gli utenti della strada, nonché la ravvisabilità del nesso causale tra l’evento (e quindi la caduta ) ed un’anomalia connotabile nel senso anzidetto (ossia, una situazione di pericolo che il custode della cosa aveva l’obbligo di eliminare in attuazione del dovere di garanzia sul medesimo incombente )”.

In questo modo la corte territoriale ha totalmente disatteso i principi relativi all’onere della prova. La sentenza impugnata è stata pertanto cassata, con rinvio al tribunale di Perugia, in diversa composizione, che dovrà procedere a un nuovo esame della causa tenendo come riferimento questi principi.

Si può essere risarciti anche se ci si fa male nell’auto parcheggiata

1 Giugno 2020/0 Commenti/in Incidenti stradali /da Emanuele Musollini

Si può essere risarciti se ci si fa male mentre l’auto è in sosta? Sì. O comunque le possibilità sono molto elevate, perché ormai presso la giurisprudenza di legittimità si è andato affermando un concetto ampio di circolazione stradale che include anche la posizione di arresto del veicolo.

Eloquente, in tal senso, l’ordinanza n. 10024/20 depositata il 28 maggio 2020 dalla Corte di Cassazione intervenuta su un caso a dir poco rocambolesco e borderline.

Infortunio nell’auto parcheggiata

Il papà di un bambino, che in quel momento guidava una vettura altrui, aveva parcheggiato l’auto e si era fermato a chiacchierare con un amico, ma, vedendo che il figlioletto stava pericolosamente scendendo dalla macchina, per impedirglielo ha rinchiuso di corsa la portiera e così facendo ha procurato al piccolo la frattura del dito di una mano, rimasto schiacciato.

I genitori del bimbo hanno citato in giudizio la proprietaria dell’auto e la compagnia assicurativa chiedendo il risarcimento del danno subito dal bambino in forza della Rc-Auto, ma in primo grado il giudice di Pace aveva rispinto la domanda ritenendo inapplicabile l’art. 2054 del codice civile, in materia di circolazione dei veicoli, e più precisamente che la norma si riferisse solamente alle ipotesi di “veicolo in movimento”.

Il risarcimento assicurativo

Decisione confermata anche in secondo grado dal Tribunale, che aveva respinto l’appello proposto dai genitori, non riconoscendo alcun collegamento causale tra il sinistro e la circolazione dell’auto, dato che le lesioni subite dal minore alla mano sinistra per schiacciamento erano state determinate dalla chiusura della portiera da parte del conducente del veicolo quando quest’ultimo era già in sosta, e, per citare le motivazioni, “non per mettersi in moto o per motivi comunque collegati alla circolazione, ma solo perché questi era intento a parlare con un suo amico e non voleva che il figlio di 6-7 anni scendesse dal veicolo e si allontanasse”: il gesto, quindi, nulla avrebbe avuto a che fare con la circolazione ed era ricollegabile solo al tentativo del padre di tenere sotto controllo il figlio in tenera età.

I genitori del minore, tuttavia, hanno proposto ricorso anche per Cassazione eccependo che doveva ricondursi al concetto di “circolazione stradale” di cui all’art. 2054 c.c. anche la sosta del veicolo su strada pubblica, e lamentando il fatto che il Tribunale non aveva considerato che il minore aveva subito le lesioni mentre si trovava all’interno dell’auto appena fermatasi appunto su strada pubblica.

Il concetto di circolazione include anche la posizione di arresto

E la Cassazione ha dato loro ragione. La Suprema Corte ha ribadito come, in base alla giurisprudenza di legittimità, “il concetto di circolazione stradale di cui all’art. 2054 cod. civ. include anche la posizione di arresto del veicolo, e ciò in relazione sia all’ingombro da esso determinato sugli spazi addetti alla circolazione, sia alle operazioni propedeutiche alla partenza o connesse alla fermata, sia, ancora, rispetto a tutte le operazioni che il veicolo è destinato a compiere e per il quale può circolare sulle strade”.

Pertanto il Tribunale, nell’escludere l’applicabilità dell’art. 2054 c.c. solo perché il sinistro in questione, da cui era derivata la frattura del dito, si era verificato quando il veicolo era in sosta (e solo in quanto la chiusura dello sportello da parte del conducente, pur essendo avvenuta dopo la sosta, era stata determinata dall’intento di non fare uscire il minore dall’autovettura), non si è attenuto a tali principi.

Da qui la decisione di cassare la sentenza impugnata con rinvio allo stesso Tribunale, in persona composizione, per la rideterminazione del caso.

Chi guida un mezzo altrui va risarcito per le lesioni fisiche riportate nell’incidente

20 Maggio 2020/0 Commenti/in Incidenti stradali /da Emanuele Musollini

Se si resta coinvolti, per responsabilità altrui, in un incidente stradale mentre si guida un’auto non propria e si riportano lesioni fisiche, si ha diritto ad essere risarciti? Assolutamente sì.

La domanda non è così scontata perché la Cassazione si è recentemente occupata di un caso nel quale al conducente di una vettura, che non era stata ritenuta di sua proprietà dai giudici, era stato incredibilmente negata, oltre alla liquidazione dei danni materiali, anche quella dei danni fisici.

 

Risarcimento negato a un automobilista perché non riconosciuto proprietario dell’auto

L’incidente era successo nel lontano 2002. L’automobilista in questione, a causa di un sorpasso azzardato di un centauro, aveva urtato la moto e aveva sbandato, andando a finire diritto contro un muro di cemento e distruggendo la macchina, appena acquistata per 27mila euro, oltre a farsi parecchio male.

Il tribunale di Nocera Inferiore, tuttavia, a cui si era rivolto citando in causa il motociclista e la compagnia di assicurazione della moto (HDI) chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni, aveva rigettato la domanda sostenendo che il danneggiato, al momento del sinistro, non fosse affatto proprietario del veicolo che guidava, ma che lo sarebbe diventato soltanto due mesi dopo.

La Corte d’Appello di Salerno, avanti la quale l’uomo aveva appellato la sentenza, aveva confermato la decisione di primo grado, ritenendo allo stesso modo che egli non avesse affatto fornito la prova di essere proprietario del veicolo danneggiato al momento del sinistro. In particolare, i giudici avevano rilevato come l’appellante non avesse mai depositato alcuna prova di avere stipulato un contratto di acquisto dell’autoveicolo danneggiato, che si era limitato a depositare una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà dell’agosto 2002, nella quale lui stesso dichiarava di avere acquistato il veicolo da un terzo e che tale documento era insufficiente a dimostrarne la proprietà.

Il ricorso per Cassazione

L’automobilista ha proposto ricorso in Cassazione lamentando in primis un’erronea valutazione da parte della Corte di merito circa le prove fornite di essere effettivamente proprietario del veicolo, ma qui la Suprema Corte, nella sentenza n. 9192/20 depositata il 19 maggio 2020, ha respinto le sue argomentazioni, confermando quanto già deliberato nei precedenti tardi di giudizio.

La Cassazione ha invece avvolto il motivo del ricorso nel quale l’automobilista censurava il fatto che i giudici precedenti, dopo aver ritenuto che egli non fosse proprietario del veicolo danneggiato al momento del sinistro, avesse rigettato anche la sua domanda di risarcimento del danno alla salute, e dunque con motivazione del tutto disancorata dalla fattispecie concreta.

 

Il danno fisico va risarcito indipendentemente dalla proprietà o meno del mezzo condotto

Una volta escluso che il ricorrente fosse il proprietario del veicolo coinvolto nel sinistro, la Corte d’appello, spiega la Suprema Corte, avrebbe comunque dovuto stabilire se un sinistro era davvero avvenuto, se al momento del sinistro il danneggiato si trovasse davvero a bordo dell’auto coinvolto e se in conseguenza di tale incidente egli avesse subito lesioni personali.

La Cassazione parla di “motivazione inintelligibile” e censura con forza il principio secondo il quale “chi non dimostra di essere proprietario del veicolo su cui viaggia, non ha diritto al risarcimento del danno alla persona”. Dunque, in questa circostanza i danni materiali al mezzo non possono essere riconosciuti, ma quelli per le lesioni fisiche vanno assolutamente risarciti dal responsabile dell’incidente.

La sentenza su questo punto è stata pertanto cassato con rinvio alla Corte d’Appello di Salerno in diversa composizione, per la ri-definizione del caso.

L’azione diretta del danneggiato verso la propria assicurazione

15 Aprile 2020/0 Commenti/in Incidenti stradali /da admin_rf

Com’è noto, il Decreto Bersani, a partire dal primo febbraio 2007, ha introdotto un’importante innovazione in tema di assicurazione, meglio nota come indennizzo o risarcimento diretto. La norma, oggi utilizzatissima, prevede che, nel caso di sinistri senza colpa e che non abbiano causato macrolesioni (e quindi per lesioni personali inferiori o pari al 9% di invalidità permanente, ambito entro il quale sono ricomprese le microlesioni), sia possibile richiedere il risarcimento del danno direttamente alla propria compagnia, che poi si rivarrà nei confronti di quella di controparte.

 

L’azione diretta nei confronti del proprio assicuratore

Attenzione però che, in caso di controversia che abbia ad oggetto l’esercizio dell’azione diretta ex articolo 149 del Codice delle assicurazioni, promossa dal danneggiato nei confronti del proprio assicuratore, sussiste litisconsorzio necessario rispetto al danneggiante responsabile: vale a dire che va chiamato in causa anche il proprietario del veicolo responsabile dell’incidente, in assenza del quale il giudice deve ordinare l’integrazione del contraddittorio. Perché una sentenza pronunciata in assenza di un litisconsorte, è a tutti gli effetti nulla.

 La Corte di Cassazione ha ribadito con forza questo principio nell’ordinanza n. 7755/20 depositata l’8 aprile 2020 esprimendosi su una complessa controversia relativa alla cessione di un credito risarcitorio da parte di un automobilista danneggiato alla società di autonoleggio che gli aveva fornito un veicolo sostitutivo.

La compagnia di assicurazione del primo, Verti, non voleva riconoscere al proprio assicurato il danno da fermo tecnico del mezzo e dunque la società di autonoleggio, cessionaria di quel credito, l’ha chiamata in giudizio.

Sia in primo grado che in secondo, avanti il Tribunale di Tivoli, tuttavia, la domanda è stata rigettata essendo mancata, secondo i giudici, la prova del credito risarcitorio in questione.

La società ha quindi proposto ricorso per cassazione con una serie di motivi tra i quali, appunto, il fatto che la Corte territoriale aveva omesso di rilevare la mancata integrità del contraddittorio instaurato tra le parti, dato che l’intero giudizio era stato celebrato senza il coinvolgimento del soggetto responsabile del danno dedotto, “da ritenersi parte necessaria nel giudizio promosso mediante l’esercizio di azione diretta nei confronti dell’assicuratore”.

 

Va sempre chiamato in causa anche il proprietario del veicolo “danneggiante”

Una doglianza accolta in pieno dalla Suprema Corte, con il conseguente assorbimento di tutti gli altri motivi.

“In tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore – spiegano i giudici -, nella procedura di risarcimento diretto di cui all’art. 149 del d. Igs. n. 209 del 2005, promossa dal danneggiato nei confronti del proprio assicuratore, sussiste litisconsorzio necessario rispetto al danneggiante responsabile, analogamente a quanto previsto dall’art. 144, comma 3, dello stesso decreto, con la conseguenza che, ove il proprietario del veicolo assicurato non sia stato citato in giudizio, il contraddittorio dev’essere integrato ex art. 102 c.p.c. e la relativa omissione, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, comporta l’annullamento della sentenza ex art. 383, co. 3, c.p.c.”.

Esattamente quanto successo nel caso di specie nel quale, per l’appunto, si era celebrato l’intero giudizio in assenza del proprietario del veicolo danneggiante.

Pertanto, la Cassazione ha pronunciato la nullità della sentenza impugnata, con conseguente rinvio al giudice di primo grado. Risultato, bisognerà ricominciare daccapo la causa, con ulteriori costi e perdite di tempo.

Il colpo di frusta va risarcito anche senza l’esame strumentale

11 Aprile 2020/0 Commenti/in Incidenti stradali /da admin_rf

La solita e trita giustificazione che si sentono ripetere migliaia di automobilisti a cui l’assicurazione non intende risarcire i danni da colpo di frusta, che cioè occorrono gli esami strumentali, non ha alcun fondamento.

Lo ha ribadito per l’ennesima volta la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 7753/20 depositata il 7 aprile 2020.

 

Un automobilista chiede i danni da colpo di frusta

Il caso è sempre lo stesso. Un automobilista tamponato cita in giudizio la donna responsabile del sinistro e la sua compagnia di assicurazione, Vittoria, che peraltro è una, se non la più ferrea nel rispedire al mittente le richieste in tal senso, per ottenere il risarcimento per le lesioni personali (al rachide cervicale in particolare) patite in seguito all’incidente.

Il giudice di pace, dopo aver disposto l’accertamento tecnico preventivo, accoglie la domanda accertando il 2% di danno biologico afferente al rachide cervicale e liquidando anche il danno morale nella misura di un terzo del danno permanente.

La compagnia però propone appello che il Tribunale accoglie solo parzialmente, rilevando che, anche senza la possibilità di un referto che attesti direttamente il pregiudizio al rachide cervicale, il danno biologico è stato accertato in modo obiettivo sul piano medico legale, in base a rilievi clinici e alla valutazione diagnostica delle complessive verifiche strumentali effettuate, mentre il distinto danno morale da sofferenza, normalmente sussistente nell’ipotesi di lesioni fisiche. I giudici danno ragione alla compagnia solo quanto al danno morale, asserendo che esso non è liquidato entro il limite di legge di un quinto, cui invece va ricondotto.

 

La compagnia ricorre per Cassazione lamentando l’assenza degli esami strumentali

Non paga, Vittoria presenta anche ricorso per cassazione lamentando in particolare la mancata applicazione da parte del tribunale della norma quale riformata dalla legge 4 agosto 2017 n. 124, già in vigore al momento della pubblicazione della sentenza di appello avvenuta il 26 settembre 2017, avendo avallato la risarcibilità di danni da lesioni personali di lieve entità (ai sensi del c.a.p., codice delle assicurazioni private) seppur non suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo: la solita doglianza.

Ma per la Cassazione, questo motivo è infondato. “Questi criteri di accertamento del danno biologico – spiegano i giudici – stanno a intendere la necessità di condurre a una obiettività dell’accertamento medico legale, sia che riguardi le lesioni sia che concerna i relativi postumi.

Le modifiche legislative del 2012 avevano l’obiettivo di rimarcare l’imprescindibilità di un rigoroso accertamento della effettiva esistenza delle patologie in parola, anche quando normativamente di modesta entità, e cioè con esiti permanenti contenuti entro la soglia invalidante del 9 per cento.

Il legislatore, cioè, ha voluto dettare una norma che, in considerazione dei possibili margini di aggiramento, in specie per suggestione anamnestica, della prova rigorosa dell’effettiva sussistenza della lesione e del postumo, imponga viceversa una prova idonea”.

 

Una norma rigorosa per contenere i costi

Una cautela necessaria e ragionevole, secondo la Suprema Corte, alla luce del fatto che “le richieste di risarcimento per lesioni di lieve entità sono, ai fini statistici che assumono grande rilevanza per la gestione del sistema assicurativo, le più numerose, sicché, nonostante il loro modesto contenuto economico, esse comportano comunque ingenti costi collettivi”.

Infatti, anche la Corte costituzionale, ricorda la Cassazione, tornando ad occuparsi della materia, dopo la sentenza n. 235 del 2014, con l’ordinanza n. 242 del 2015 ha avuto modo di chiarire che il senso della normativa del 2012 è quello di impedire che “l’accertamento diagnostico ridondi in una discrezionalità eccessiva, con rischio di estensione a postumi invalidanti inesistenti o enfatizzati, anche in considerazione dell’interesse generale e sociale degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi: il che conferma l’esigenza economica di un equilibrio tra i premi incassati e le prestazioni che le società di assicurazione devono erogare”.

Premesso questo, però, la Suprema Corte chiarisce e ribadisce che “il rigore che il legislatore ha dimostrato di esigere non può essere inteso nel senso che la prova della lesione e del postumo debba essere fornita esclusivamente con un referto strumentale, posto che è sempre l’accertamento medico legale corretto, tale riconosciuto dalla scienza medica, a stabilire se la lesione sussista e quale percentuale di postumo sia ad essa ricollegabile”.

 

L’accertamento medico non può essere “imbrigliato” con un vincolo probatorio

“Un accertamento medico – incalza la Cassazione – non può essere imbrigliato con un vincolo probatorio che, ove effettivamente fosse posto per legge, condurrebbe a diversi dubbi non manifestamente infondati di legittimità costituzionale, posto che il diritto alla salute è un diritto fondamentale garantito dalla Costituzione e che la limitazione della prova della lesione del medesimo e del conseguente pregiudizio dev’essere conforme a criteri di ragionevolezza, rispetto alla tutela su cui incide.

La norma positiva, dunque, va letta nel senso della richiesta di un accertamento rigoroso in rapporto alla singola patologia, tenendo presente che vi possono essere situazioni nelle quali, data la natura della patologia e la modestia della lesione, l’accertamento strumentale risulta, in concreto, l’unico in grado di fornire la prova idonea che la legge sottolinea disciplinando la fattispecie”.

Il caso concreto, quello di una tipica patologia da incidente stradale, cioè la lesione del rachide cervicale, rientra perfettamente in questa eventualità. Dunque, in quest’ipotesi l’accertamento “non può dirsi effettuato sulla base del dato puro e semplice – e in sostanza non verificabile – del dolore più o meno accentuato che il danneggiato riferisca. L’accertamento clinico strumentale, in simili casi, sarà, con ogni probabilità, lo strumento decisivo che consentirà al consulente tecnico giudiziale di rassegnare al giudice una conclusione scientificamente supportata, fermo restando il ruolo insostituibile sia della visita medico legale che dell’esperienza clinica”.

In conclusione, secondo la Cassazione nella sentenza impugnata i canoni normativi non sono stati violati, “posto che il giudice, se da una parte ha indicato che la lesione al rachide cervicale non era attestata come tale e direttamente da un referto, la sua diagnosi era stata evinta con sicurezza da una plurima serie di rilievi clinici ed esami strumentali, tra cui la radiografia del rachide cervicale e lombosacrale, e l’ecografia della spalla sinistra”.

 

Niente automatismo tra danno biologico e danno morale

Per la cronaca, la Cassazione ha invece accolto il motivo di doglianza del ricorso relativo al danno morale, asserendo che “costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico – inteso, secondo la stessa definizione legislativa, come danno che esplica incidenza sulla vita quotidiana del soggetto e sulle sue attività dinamico relazionali – e del danno cosiddetto esistenziale, appartenendo tali “categorie” o “voci” di danno alla stessa area protetta dalla norma costituzionale, mentre una differente e autonoma valutazione andrà compiuta con riferimento alla sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute.

La liquidazione finalisticamente unitaria di tale danno avrà pertanto il significato di attribuire al soggetto una somma di danaro che tenga conto del pregiudizio complessivamente subìto tanto sotto l’aspetto della sofferenza interiore, quanto sotto quello dell’alterazione o modificazione peggiorativa della vita di relazione in ogni sua forma e considerata in ogni suo aspetto, senza ulteriori frammentazioni nominalistiche”.

“Naturalmente, al pari delle personalizzazioni del danno biologico rispetto allo “standard” del punto d’invalidità, giustificabili in relazione a irripetibili singolarità dell’esperienza di vita individuale, il danno da sofferenza morale dovrà essere allegato e provato specificatamente anche a mezzo di presunzioni – conclude la Cassazione -, ma senza che queste, eludendo gli oneri assertivi e probatori, si trasducano in automatismi che finiscano per determinare (anche) un’erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella legale”.

Quello che per la Suprema Corte sarebbe accaduto nel caso di specie.

 

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